Storia di Laura Santi e della sua battaglia per morire
“Non ne ho la certezza, ma se sceglierò di farlo immagino che saluterò la vita tenendo la mano di mio marito.”
Laura Santi, consigliera dell’Associazione Coscioni, “giornalista una vita fa” come mi dice lei. Ha quasi 50 anni e la sclerosi multipla da 29, che dal 2015 è diventata progressiva aggravando ulteriormente la sua situazione, soprattutto negli ultimi due anni, tanto da chiedere l’accesso al suicidio medicalmente assistito, tema che porta avanti con convinzione.
Da Perugia, dove vive con il marito, risuona forte la sua vittoria: la commissione medica, nella relazione redatta, ha dato l’autorizzazione necessaria riconoscendole tutti e quattro i requisiti previsti dalla sentenza della Corte costituzionale. Insomma: quando vorrà, potrà.
“Felice di sentirmi veramente libera di scegliere” è stato infatti il suo primo commento sulla stampa, anche se al momento non intende avvalersi della procedura. Che poi, diciamolo, anche di questo siamo contente e contenti, perché di Laura (non della sua forza, come dicono troppe persone con quel velo neanche leggero di “inspiration porn”) abbiamo ancora bisogno per mantenere viva la luce sulla questione, ma soprattutto sulla speranza che il suo risultato possa aprire la strada ad altri. Resta comunque imprescindibile il suo diritto all’autodeterminazione contro l’opinione (e l’affetto) di chiunque.
A ogni modo nelle prossime settimane avverrà un incontro per individuare il farmaco e la modalità per l’eventuale esecuzione, che avverrà quando le sofferenze fisiche e psicologiche diventeranno definitivamente insostenibili per lei. Solo allora la sua scelta, legittima sempre e autorizzata adesso, verrà compiuta.
Ho voluto così contattarla per farle qualche domanda, scavando un po’ più a fondo nel suo privato perché il suo dolore, oggi, è politico, e di quello necessario per tutte e per tutti noi, a prescindere dal nostro stato attuale.
Cara Laura, intanto: come sta?
“In una condizione di tetraplegia con paralisi quasi totale e spasticità grave: muovo solo la mano e l’avambraccio destro (male), oltre alla testa. Ma soprattutto provo una ‘fatica neurologica’ per più di cinque ore al giorno, ho una doppia incontinenza con necessità di evacuazione meccanica e cateterismi plurimi, avendo sia vescica che intestino neurologici. Questo mi comporta infezioni costanti, tanto che da un anno sono sotto antibiotici. Oltre poi ai dolori posturali e procedurali dovuti alle manovre di chi mi assiste…”
Sta dicendo che l’assistenza domiciliare non funziona come nel film “Quasi Amici”?
“Ovviamente no. Certo, l’assistenza fatta di incontri fortuiti può avvicinarcisi, io per esempio ho delle assistenti che definisco sorelle, ma altre (soprattutto statali) sono spesso inadeguate e non formate. L’assistenza è motivo di vita se la migliora oppure di morte se diventa una gabbia che contribuisce nel far dire ‘non ce la faccio più’.”
Adesso come si trova?
“Sto bene, con una rete pubblica che tra alti a bassi mi garantisce una situazione sicuramente non perfetta ma migliore rispetto a tempi passati. E poi un’assistente privata che mi evita la discontinuità assistenziale, anch’essa una grossa fatica: trovare la figura giusta, riuscire a pagarla con le risorse a disposizione, ecc...”
Nel concreto: quant’è effettivamente la sua assistenza?
“Al mattino sono fortunatamente coperta quasi tutte le mattine con l’assistenza statale, ma ovviamente non basta: per il pomeriggio ho dovuto assumere un’OSS che riesco a pagare per metà grazie al “Home Care Premium”, che mi spetta essendo i miei genitori statali, e per l’altra metà grazie al loro aiuto personale. Insomma, ore insufficienti e comunque a un altissimo costo per quasi tutte le persone con disabilità, e anche questo è un tema su cui dobbiamo lavorare essendo una grave emergenza sociale: la nostra vita dipende dalla quantità e dalla qualità dell’assistenza.”
E per quanto riguarda la notte?
“Devo essere seguita perché non posso stare da sola, soprattutto nelle notti peggiori: per pause pipì, tra cateteri, traverse, ed eventuali spostamenti; ma anche per dolori, spasmi e quant’altro. Per le notti un po’ meno difficili, invece, è sufficiente una presenza seppur continua. Se c’è Stefano, mio marito, ci pensa lui anche se con fatica, altrimenti se va via per delle trasferte devo pagarmi ulteriori assistenti, ovviamente private. Cioè altri soldi che se ne vanno.”
Venendo all’autorizzazione della commissione medica: ha riempito tante persone di gioia, eppure sembra ancora inaccettabile gioire per morire. Qualche commento l’ha ferita?
“Non voglio dare spazio e visibilità ad alcuni commenti beceri, come quelli che mi dicono che brucerò tra le fiamme dell’Inferno solo per aver scelto di essere libera. Il vero Inferno sono certe condizioni. Che poi, io per ora resto aggrappata alla vita, eppure chi mi vuol bene sostiene qualsiasi sarà la mia scelta e questo è bello.”
Cos’è che la gente non vede della sua condizione?
“Tutto. Dovrebbero stare 24 ore con me in camera, in bagno, nei miei spazi risicati con i miei ausili… Solo così, forse, avrebbero una minima idea. Per questo fare certe battaglie vuol dire esporre corpi, routine e relative sofferenze, ed è faticoso e imbarazzante. Ma usare il corpo come lotta politica è importante, in modo almeno da offrire un piccolo scorcio alle persone su certe situazioni.”
Cosa le dà più fastidio?
“L’ignoranza sulla disabilità. Sono convinta che se capissero davvero cosa comportino situazioni come la mia e certi calvari, le persone sarebbero favorevoli al fine vita per riappropriarsi della vita stessa.”
Se posso, il rapporto con suo marito è cambiato dopo la malattia?
“La malattia non lo ha cambiato, lo ha direttamente sventrato facendolo a pezzi. Quando si diventa caregiver di persone con disabilità ad altissimo bisogno di supporto è una fatica enorme. Siamo una coppia molto aperta e sincera, e proprio in questo riconosciamo la grande perdita economica, di salute mentale e di vita insieme. Per esempio eravamo due grandi viaggiatori, ma ora inevitabilmente è cambiato tutto. Certo, questo vale per qualsiasi persona e per i motivi più disparati, ma quando una persona deve cateterizzarti e svuotarti meccanicamente l’intestino come possiamo pensare che resti l’eros? Poi, che non mi manchi la sessualità è un altro discorso, il problema è la vita a due che non viene sostenuta dallo Stato riconoscendo supporti anche per chi si prende cura.”
A livello emotivo, invece?
“La condivisione della mia battaglia per il fine vita non è stata facile, ogni volta che Stefano si espone si commuove. E questo, peraltro, mi impensierisce per quando io non ci sarò più, nonostante sia un uomo forte e con le spalle larghe. Al tempo stesso rimane la consapevolezza di essere per lui un peso anche se lo nega. Perciò diciamo che preferisco non pensarci…”
Cosa le manca che avrebbe voluto nella sua vita?
“Due cose: continuare a fare la giornalista, e poi anche essere madre nonostante il mio scarso istinto genitoriale. Io e Stefano ci siamo sposati già maturi, ma proprio quando stavamo per rompere gli indugi la malattia si è riattivata e non ha più dato tregua. Considerando poi che io sono anche epilettica e che i farmaci necessari sono molto teratogeni, ed è un problema sospenderli, abbiamo scelto di non fare figli, decisione molto lunga e sofferta ma l’abbiamo elaborata insieme e superata.”
Che madre sarebbe stata?
“Non lo so, oggi mi chiedo come sarebbe andata se avessimo avuto dei figli in questa situazione... E penso che forse sia stato un sofferto, molto sofferto, colpo di fortuna.”
Quanto il “mondo della disabilità” la sta supportando nella sua battaglia?
“Tantissime persone mi ringraziano, mi supportano… Ma molte altre si sentono chiamate in causa come se lo Stato dovesse ‘togliere di mezzo’ pure loro. Io penso che chiunque abbia il diritto di viversi la vita fino in fondo, con o senza disabilità e compromissioni. D’altronde io stessa ho vissuto anni felice sulla mia carrozzina e negli sconforti occasionali che ci sono stati... Ma adesso vivo una situazione diversa, decisamente pesante, e sebbene ci sia sempre e comunque un brandello di speranza al quale aggrapparsi, fosse anche per un po' di sole o vento in faccia, la mia resta una lotta non in quanto disabile ma in quanto sofferente per una progressione della mia condizione. Dopodiché resta ovvio che ogni persona debba essere libera di decidere, anche nelle situazioni più gravi, restando libere e liberi di viverle fino in fondo.”
C’è un messaggio che vorrebbe consegnare?
“Libertà e fiducia. La mente umana si abitua a tutto o quasi, ed è capace di grandi cose, ma bisogna vedere quale sia la personale idea di ‘qualità della vita’ e se questa corrisponde a cosa vogliamo oppure no. Sentirmi adesso nuovamente padrona della mia fino alla fine mi fa tornare ad apprezzarla, per quanto possibile.“
Laura, ha paura di morire?
“Molta, moltissima. Un sacro rispetto e un timore assoluto.”
Cosa crede che penserà in quel momento, quando premerà il pulsante?
“Me lo chiedo spesso ma non ho una risposta non essendo ancora in quelle condizioni: per arrivare a schiacciare quel pulsante dovrò essere in una situazione abbastanza disperata, spero al punto da farlo con più facilità. E allora penso che saluterò la vita tenendo la mano di mio marito.”
Dopo l’intervista scherziamo un po’. Lei mi ringrazia più volte, io le dico che se continuerà a farlo cancellerò tutto quanto, lei sorride però mi ripete: “Non so come ringraziarti anche per la mia logorrea. Amico mio, io morirò convinta di essere una rompicoglioni noiosa!”.
E allora io dico: evviva chi rompe i coglioni, le regole, perfino una certa morale… In nome della libertà.
Cara Laura, ti auguro il meglio.
belllissima intervista, vorrei aggiungere che, secondo me, non ci deve essere per forza, in una malattia incurabile, una sofferenza insopportabile per poter decidere di mettere fine alla propria vita, capitasse a me
vorrei poterlo fare prima di arrivare al punto di amare più la morte della vita
Grazie Iacopo per questa bellissima intervista.