Le risposte dell’oro paralimpico “Rigi” sono da manuale dell’anti-eroe
Se non capisci se ci è o ci fa, sappi che Rigivan ci è eccome, rappresentando finalmente l’opposto di quella narrazione sulla disabilità che da anni combattiamo.
Se non sbaglio era il 2015. Dopo una delle mie primissime conferenze come relatore mi si avvicina una giornalista e, superate le prime domande di rito, mi chiede: «Dove trovi la forza?».
Io all’epoca avevo già maturato la consapevolezza che per essere dei buoni attivisti bisogna anche essere un po’ stronzi quando serve, e che farsi scivolare giù cose (e domande) senza alcun senso, se non quello di soffiare sul fuoco del pietismo, è la cosa più sbagliata che si possa fare, per questo le risposi: «Mangio tanti spinaci».
Lo ricordo ancora bene il suo silenzio imbarazzato conseguente, e lo rivendico con un certo orgoglio perché mi rammenta il motivo per cui faccio attivismo: per smontare stereotipi, pregiudizi, luoghi comuni e narrazioni tossiche.
Non ho potuto non provare soddisfazione, quindi, nell’ascoltare alcune interviste di questi giorni durante le Paralimpiadi (delle quali sto evitando di parlare pubblicamente, salvo piccole eccezioni, ma questa è un’altra storia e magari ne parlerò meglio in una puntata a parte…).
Nello specifico andiamo al lancio del giavellotto, dal nostro pluri-campione italiano…
«Quanto pesa quella medaglia che porti al collo??», chiesto con quel tono fastidioso che si userebbe verso un bambino o verso chi, purtroppo, non ha grandi facoltà cognitive. La risposta di Rigivan Ganeshamoorthy, detto “Rigi”, arriva puntuale e con un forte accento romanesco: «M’è venuto er mar di collo pe’ quanto pesa…». Da qui la risatina dell’intervistatrice che cerca di essere coperta da un esagerato entusiasmo di accompagnamento: «Lo immaginiamo! È bella grande!!» (che suona un po’ come “Che orecchie grandi che hai!!” detto da un’ingenua Cappuccetto Rosso).
Le risposte che il triplice record-man del mondo continuerà a dare, non solo al TG1, saranno più o meno tutte così: brevissime, apparentemente banali, talvolta sfacciate o da parte di uno che inizialmente non capisci se ci è o ci fa. E invece Rigivan ci è eccome, rappresentando finalmente l’opposto di quella narrazione sulla disabilità che da anni combattiamo, ovvero quella fatta di pietismo, compassione e infantilizzazione che troviamo non solo nello sport.
L’atleta romano di Dragona è nato nel 1999 da genitori originari dello Sri Lanka. Si sposta su una sedia a rotelle e al naso porta un tubicino per l’ossigenoterapia, caratteristica che sul web ha indotto molte persone a documentarsi sulla sindrome di Guillain-Barré che lo riguarda.
Ma le domande “profonde” proseguono, nella solita lagna con tanto di stupore per condimento: «Hai fatto una gara straordinaria, un’impresa che riesce a pochissimi, ma come ci sei riuscito?? Ce lo puoi dire??».
Qualche secondo di silenzio, e poi di nuovo arriva la risposta che non ti aspetti (e per fortuna, perché è un altro schiaffo alla banalità che ormai abbiamo interiorizzato da troppo tempo e che condiziona la vita di molte persone con disabilità, delle loro famiglie e non solo): «Boh! Bella domanda, manco io lo so…». Ma alla giornalista non basta, deve portare a casa il racconto strappalacrime, quello che possibilmente rimanda a una storia di riscatto e di “rivincita”, di sofferenze ma anche di soddisfazioni, e allora suggerisce: «Tattica, talento, immaginiamo…», ma niente, Rigi è fantasticamente irremovibile e ribadisce un esaustivo: «Mah, boh, penso di sì, non lo so!».
Tutto questo potrebbe sembrare un dialogo surreale, oppure perfino un insulto da parte di un ragazzo che pare sminuire non solo le sue gesta (tre record del mondo) ma soprattutto una grande occasione, una vetrina incredibile che troppe persone vorrebbero poter avere a disposizione, eppure è tutto preciso, tutto corretto, tutto splendidamente incastrato con i tempi giusti, il tono giusto, perfino la parlata dialettale.
Ma anche questo ovviamente non basta, perché non viene ancora compreso dalla nostra TV di Stato che fino all’anno scorso era abituata al programma “Nuovi eroi”, dove la disabilità veniva narrata come l’apoteosi dell’inspiration porn, e all’ora di nuovo si torna all’attacco sperando di strappare una briciola di contenuto dalla loro parte: «Però ci sono anche sacrifici, vi allenate parecchio…», ma Rigivan Ganeshamoorthy sminuisce ancora: «Negli ultimi tre mesi mi sono allenato abbastanza». Fine, tutto qui. Meraviglioso.
Ecco quindi cosa è il vero talento, oltre le medaglie di qualsiasi colore e peso: è smontare quel sentimentalismo che porta una donna dietro a un microfono a dire «Lo sai che hai tanti amici che ti stanno aspettando?» rispondendo con un paraculo «Ah, non lo sapevo…». È creare situazioni di imbarazzo per porre i riflettori su cosa davvero sia imbarazzante e disagiante, quegli atteggiamenti che guardano dall’alto in basso del tipo «Dai! Lo sai bene! Ti faranno una grande festa!» mentre la risposta, anche qui, è «Mi faranno qualche sorpresa strana, mi aggrediscono all’aeroporto!», ricordando che la normalizzazione è anche non fare sconti ai disabili, è trattarli come si farebbe con chiunque, senza salvaguardarli a priori sotto campane di vetro.
È lanciare dischi insieme a decenni di parole sbagliate, toni sbagliati, pensieri sbagliati talmente lontano da segnare nuovi record, quelli che fanno fare un salto avanti verso l’inclusione vera, che avvicina le persone senza porre delle gerarchie anziché distanziarle.
Perché Rigivan Ganeshamoorthy, tutte le altre atlete e tutti gli altri atleti che hanno gareggiato (e non “partecipato”) alle Paralimpiadi non sono degli eroi, sono persone che con dedizione e sacrificio, oltre che qualche talento, fanno esattamente ciò che fanno miliardi di altre persone: praticano sport. Nulla di più, nulla di meno, e solo quando impareremo a non vedere carrozzine, gambe in carbonio, mascherine agli occhi o tubicini dell’ossigeno capiremo anche che certe domande, oltre ad essere stupide, tolgono spazio a ciò che davvero dovrebbe interessarci. Prestazioni, risultati, sconfitte e vittorie che sono proprie di qualsiasi essere umano, senza alcuna specialità.
Altrimenti finisce che ha ragione Rigi anche in questo: le Paralimpiadi? «Belle, ma ce so’ troppi disabili…».
Ciao Jacopo, mi chiedevo come mai non avessi ancora risposto con un articolo al solito atteggiamento pieno di pietismo dei giornalisti Rai…Finalmente è arrivato, è sempre un piacere (e un insegnamento per molti!) leggere i tuoi commenti. Grazie!
Detesto il sentimentalismo e il pietismo, ma io fatico davvero a non trovare una qualche forma di eroismo in quello che fanno gli atleti paralimpici: lo intendo come sentimento di sana ed entusiastica ammirazione, senza velature lacrimose, come lo sarebbe nei confronti di un Jacobs o di una Paolini. Insomma, concordo col dover svecchiare e ripulire profondamente la narrazione giornalistica che risulta spesso stucchevole, ma a volte la visione "dal di fuori" è sinceramente ammirante, col sorriso sulle labbra: è difficile rendere l'idea ma... immagina una "normodotata" che non ha neanche voglia di fare le scale, pur potendo, quanto possa ammirare un atleta in sedia a rotelle che vince un oro olimpico... ecco 🙂 Felice di essermi iscritta a questa newsletter, ti leggerò con piacere! Buona continuazione!