Il ritorno del “pericolo gender”: come la destra reazionaria censura la parità
Ostacolare la decostruzione degli stereotipi significa proteggere rigide gerarchie di potere.
A causa di censure implicite, pressioni politiche e il timore di toccare temi considerati “divisivi”, in Italia la discussione intorno a discriminazioni, stereotipi e violenza di genere non è mai stata facile, soprattutto nei contesti scolastici.
Con la recente (ri)elezione di Donald Trump alla Casa Bianca la situazione rischia di peggiorare ulteriormente. A tre mesi dal suo insediamento, gli effetti di un’ondata reazionaria, che ha conosciuto una recrudescenza negli Stati Uniti, iniziano a farsi sentire anche da questa parte dell’Atlantico.
Un esempio recente è il caso riportato dal quotidiano Domani: in occasione della giornata dell’otto marzo, il collettivo studentesco “Primavera” del Liceo Da Vinci di Milano ha raccontato di aver dovuto cancellare una serie di eventi - tra cui un incontro con le attiviste di “Non Una di Meno” sulla violenza di genere - perché ritenuti dal “comitato di vigilanza” dell’istituto troppo divisivi e privi di contraddittorio.
Se già oggi ci troviamo a dover spiegare perché parlare di violenza di genere non necessiti di un “contraddittorio” (dovremmo forse coinvolgere gli autori stessi di violenza?), il rischio è che tra non molto questi temi vengano del tutto espunti dagli spazi pubblici, bollati come parte di un’ideologia pericolosa e controversa.
Del resto, dopo la richiesta da parte dell’amministrazione Trump di eliminare o ridurre l’uso di parole e concetti considerati problematici da siti istituzionali, pubblicazioni rivolte al grande pubblico, anche il Ministero del Merito ha avanzato la medesima istanza alla scuola italiana.
Questo gesto appare plateale, tuttavia non si tratta di una dinamica improvvisa né isolata. Come sottolinea Michela Marzano in “Papà, mamma e gender” - tra i primi volumi dedicati all’argomento, pubblicato ormai dieci anni fa - la costruzione del cosiddetto “pericolo gender” è stata funzionale a spostare il dibattito dal tema dei diritti e dell’equità a una presunta minaccia ideologica.
Secondo questa retorica, smontare gli stereotipi di genere equivarrebbe a negare l’esistenza di differenze tra uomini e donne, a cancellare l’identità sessuale e a imporre un’omologazione innaturale. Nel libro, l’autrice ricorda come il movimento Manif pour tous in Francia abbia utilizzato questa retorica - che a sua volta affonda le radici in The gender agenda, pubblicato nel 1997 dalla scrittrice cattolica conservatrice Dale O’Leary - per mobilitare migliaia di persone prima contro il matrimonio egualitario e poi contro l’educazione alla parità nelle scuole. Lo stesso modello è stato ripreso in Italia attraverso la diffusione di volantini, petizioni e campagne che ancora oggi denunciano il rischio di una “colonizzazione gender” nelle aule scolastiche.
Promuovere il contrasto agli stereotipi di genere non è un’invenzione recente né una strategia promossa da presunte “associazioni pericolose”, come vorrebbe far credere la retorica conservatrice. Al contrario, si tratta di un principio che affonda le sue radici in studi accademici consolidati e in raccomandazioni istituzionali riconosciute a livello internazionale.
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Sin dagli anni Settanta, la ricerca sociologica e psicologica ha dimostrato come gli stereotipi di genere non solo limitino le possibilità di autodeterminazione delle persone, ma contribuiscano a perpetuare disuguaglianze e forme di violenza.
L’UNESCO ha più volte sottolineato come il linguaggio e le rappresentazioni sociali influenzino la percezione dei ruoli di genere e come il loro cambiamento sia cruciale per costruire società più eque. Allo stesso modo, le ricerche condotte dall’OMS hanno messo in evidenza che la prevenzione della violenza di genere passa necessariamente attraverso un cambiamento culturale, che non può avvenire senza un lavoro mirato sugli stereotipi e sulle norme sociali che giustificano la subordinazione di un genere rispetto all’altro. L’Unione Europea, nei suoi documenti strategici, ha ribadito che educare al rispetto e alla parità di genere è un tassello essenziale per ridurre le disparità economiche, sociali e politiche tra uomini e donne.
Tutto questo, dunque, non ha nulla a che vedere con un’agenda ideologica nascosta, ma con l’evidenza di dati e analisi che dimostrano l’impatto concreto degli stereotipi nella vita di tutti e tutte e, conseguentemente, sulla nostra società. Ignorare questo aspetto significa negare la realtà e privarsi di strumenti fondamentali per affrontare problemi strutturali.
Chi lavora in quest’ambito sa bene che l’obiettivo finale di questa strategia non è solo ostacolare l’educazione all’equità di genere, ma costituisce soprattutto il tentativo di rafforzare una visione del mondo in cui la gerarchia tra i generi risulti naturale e, pertanto, normale.
Le psicologhe Diane Ehrensaft e Michelle Jurkiewicz, autrici de “Il gender spiegato bene”, sottolineano come gli errori commessi da chi sostiene l’esistenza di un presunto “pericolo gender” derivino da un meccanismo preciso: partendo da un dato di natura - ovvero il corredo cromosomico, genetico e sessuale di una persona - si compiono una serie di inferenze che portano a dedurne il genere e, di conseguenza, i ruoli sociali ad esso correlati. Tuttavia, questa lettura presenta molteplici punti deboli.
Da un punto di vista strettamente biologico, la natura tende a generare quante più variazioni possibili proprio per garantire la propria sopravvivenza, rendendo di fatto inadeguata qualsiasi rigidità classificatoria. Inoltre, non esiste alcuna relazione diretta e deterministica tra il dato biologico e i ruoli di genere.
In altre parole, anche quando la nostra identità di genere coincide con il sesso biologico assegnato alla nascita (il caso di una persona cisgender), non vi è nulla nel patrimonio genetico che stabilisca quali comportamenti, attitudini o inclinazioni siano più congeniali al genere in cui ci si identifica. La suddivisione rigida dei ruoli di genere è dunque una costruzione sociale, non una realtà inscritta nella biologia.
Oggi sappiamo che gli stereotipi di genere - cioè quelle idee fisse e rigide circa la maschilità e la femminilità - condizionano la vita di uomini e donne a partire dai primi anni di vita. Dalla nascita in poi, bambine e bambini vengono indirizzati attraverso i giochi, i vestiti, le attività sportive, i cartoni e i media, ad aderire a una certa idea di maschilità e di femminilità sulla base di una presunta “naturalità” dei comportamenti. Come abbiamo detto, però, di naturale non c’è nulla e, come ricordano ancora Ehrensaft e Jurkiewicz, è sufficiente ripercorrere la storia per osservare come certe disposizioni relative all’essere maschio o femmina siano variate nel corso del tempo (e nei contesti geografici) in base ai cambiamenti socio-culturali.
La presunta naturalità, tuttavia, è servita a giustificare un trattamento differente, a sua volta causa di discriminazioni. Il binarismo infatti non si limita a separare le sfere di pertinenza di maschi e femmine ma le gerarchizza assegnando a ciò che pertiene il maschile un valore maggiore. Per osservare questa gerarchizzazione è necessario seguire il percorso evolutivo di ragazzi e ragazze e osservare un momento cruciale, quello relativo alla scelta della scuola superiore.
Il binarismo facilita la creazione di quelle “gabbie di genere” che indirizzano alunne e alunni verso percorsi di studio, professionali e di carriera fortemente diseguali. Le ragazze finiscono per scegliere la sfera delle scienze umane (dove le opportunità di trovare impieghi ben remunerati sono più scarse), privilegiando al contempo quelle occasioni professionali che concedono abbastanza spazio per gestire gli impegni familiari e il carico ad essi correlato; i ragazzi restano esclusi da alcuni ambienti (il settore connesso alla cura, ad esempio) perché considerati inappropriati per motivi di genere, oltre che poco redditizi sotto il profilo economico.
Se per i maschi l’esclusione di certi percorsi formativi è spesso una scelta consapevole, guidata proprio dalla prospettiva di una minore stabilità finanziaria, per le coetanee il processo è molto più sfumato. Con il tempo finiscono per convincersi di aver compiuto quelle scelte in piena autonomia, quando in realtà esse sono il risultato di condizionamenti culturali e sociali radicati.
Ruoli subalterni, percorsi di carriera più fragili e una distribuzione diseguale del lavoro di cura e della gestione gestione familiare non solo limitano le opportunità delle donne, ma le rendono anche più esposte a vulnerabilità economiche e sociali, aumentando il rischio di violenza di genere. Per questo è fondamentale intervenire sin dai primi anni di vita, prima che questi meccanismi si cristallizzino, e decostruire gli stereotipi di genere prima che diventino modelli interiorizzati, difficili da mettere in discussione.
La violenza, infatti, non è un fenomeno che si manifesta all’improvviso né può essere arginato unicamente attraverso misure repressive o interventi legislativi. Al contrario, la sua prevenzione richiede un cambiamento culturale profondo, che sostenga le persone - tutte - in un percorso di empowerment individuale e di trasformazione collettiva.
Chi si oppone all’educazione alla parità di genere non lo fa perché realmente preoccupato per i bambini e le bambine. Ostacolare la decostruzione degli stereotipi significa proteggere uno status quo che mantiene rigide gerarchie di potere e relazioni sociali profondamente diseguali. È questa la vera posta in gioco: non la salvaguardia di un presunto ordine naturale, ma la difesa di strutture che perpetuano disuguaglianze e oppressioni.
Lucido, profondamente competente e intellettualmente onesto come sempre.Grazie. Forse ti sembrera' un po' strano ma vorrei proporre la lettura della tua riflessione e dei testi che citi ad un gruppo di donne che si e' costituito all' interno della mia parrocchia per l' abbattimento degli stereotipi di genere nella Chiesa cattolica, ad esempio l' esclusione delle donne dal diaconato e dal sacerdozio. Ecco...non ci piacciono le cose facili e lavoriamo,credo, per le nostre nipoti.Ma studiando, anche solo un pochino, si comprende come dalle Scritture," ripulite" dal contesto culturale di testi stratificati nel tempo, non emerge proprio nulla di quel patriarcato opprimente che PARTE della chiesa cattolica, purtroppo la piu visibile a volte, usa come una bandiera con un impatto grave sul contesto culturale in cui viviamo. Sentiamo una responsabilita' rispetto alla Chiesa e alla considerazione delle donne nele suo interno ma anche una responsabilita' della Chiesa sull' approccio culturale alla questione di genere, che storicamente a mio parere ha fomentato una cultura discriminante.